Il 19 luglio 1992 era domenica, il martedì successivo avrei compiuto 18 anni. Ero concentrata nella preparazione della festa di compleanno e nelle modifiche all’abito verde acqua fatto a mano. Ho sempre festeggiato tutti i miei compleanni. Quell’estate non andò per niente bene: la festa e il resto dell’estate furono un coacervo di tensioni e delusioni profonde. La mia maturità non andò bene: la notizia la portò la sera della festa l’unico compagno di classe che non avevo invitato.
Ho preso quell’Aleksandra e l’ho trasformata in qualcos’altro.
Non avevo mai collegato i miei 18 anni alla strage di via D’Amelio.
Nella mia testa l’assassinio del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta viaggia su un binario temporale a parte. La storia ciclica e devastante di queste stragi si rinnova ogni anno. Ogni anno sono davanti a quel tg che racconta dell’esplosione, senza alcun tipo di sentimento se non la certezza dell’ineluttabilità dell’avvenimento e un punto scuro di paura in fondo alla mente; nell’angolo che riservo alle paure che qualcosa possa solo andare peggio.
Il 23 maggio era avvenuta la strage di Capaci. A marzo era stato ucciso Salvo Lima, ma sembra un po’ meno in confronto all’impatto degli assassinii di Falcone, Borsellino e di coloro che erano loro accanto, e delle stragi di via dei Georgofili e di via Palestro, avvenimenti che colpirono così tanto gli animi di noi che eravamo ragazzini allora. Ci stavamo affacciando alla vita e qualcosa ci suggeriva che ci fosse una guerra in atto. Ma la guerra era qualcosa che apparteneva all’epoca dei nostri nonni.
Stamattina mi sono ritrovata nella timeline di Facebook il link a un articolo di Giuseppe Rizzo, giornalista, social media manager, scrittore. L’articolo è datato 3 aprile 2015, si intitola La Sicilia è una guerra in due atti. Cercando notizie su Rizzo, ho trovato una pagina su Il Post in cui, riferendosi all’articolo in questione, si scrive che:
“Giuseppe Rizzo critica su Internazionale il modo in cui giornalisti e magistrati sfruttano la carica emotiva dei fatti di mafia per il proprio tornaconto, raccontando però solo un pezzo della storia”.
Beh, questo è solo il titoletto, ma qui sopra avete i link agli articoli e potete farvi una vostra idea.
Ho percepito questo piccolo articolo de Il Post come una critica all’articolo di Rizzo. Io, invece, ne sono rimasta affascinata. Rizzo racconta, più che un articolo giornalistico, il suo mi sembra storytelling: racconta delle epoche, del paese in cui è cresciuto, di persone che si sono contraddette, delle domande che possiamo porci:
“In provincia l’assolutismo è impossibile, perché ci conosciamo tutti e può capitare, come è capitato nel mio piccolo paese in provincia di Agrigento, che una mattina ci si svegli con qualcuno che si conosce o con qualche parente dietro le sbarre. Ma conseguentemente succede anche che ci si possa fare domande del genere: cosa spinge un ragazzo che è cresciuto in una famiglia per bene a chiedere il pizzo? Se arrestano tuo padre, tuo fratello o la persona che ami significa che sei complice, lo sei stato o lo sarai se non lo condanni? Cucire dei bottoni sugli accappatoi perché quelli con la cintura di stoffa in carcere non sono ammessi fa di te un mostro? Se nel tuo paese non si è mai pronunciata la parola mafia vuol dire che sono tutti codardi? I tuoi genitori hanno avuto diritto di avere paura? Per anni mi sono chiesto: posso o non posso scrivere una lettera a X, finito in carcere con l’accusa di omicidio? Ognuno affronta queste domande come sa e può, e arriva a risposte differenti.”
Poiché io appartengo a quella generazione di ragazzini “negli anni delle stragi”, certe domande me le sono poste anche io, perché in provincia, come in città (una città come Taranto) poteva capitare che all’improvviso qualcuno che conoscevi da quando eri bambina si trasformasse in un delinquente, valicasse il confine fra l’infanzia e l’età adulta, scegliendo la parte sbagliata. Non posso raccontare di altre epoche, ma ricordo bene che nel quartiere “nuovo” in cui nella seconda metà degli anni ’80 si erano trasferite centinaia di giovani famiglie con bambini, negli anni ’90, quei bambini appena cresciuti furono accerchiati dalla gente della “parte sbagliata” e coinvolti. Erano lì, ai confini del quartiere, ad aspettare come Alien affamati.
Ecco, Rizzo dice che non ci sono solo gli Alien, ma anche i Predator; lui li chiama “maestri dell’emergenza”. Dice che ne parlava anche Sciascia, decenni prima. ‘Ché quando leggi Sciascia è una folgorazione e un po’ ti dispiace sentire certe crude verità: “Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania.” (da Nero su Nero).
Magari c’è chi leggendo l’articolo si urterà di certe cose, però non mi sembra che Giuseppe Rizzo la dica sbagliata: non voglio pensare che i morti degli anni ’90 e il loro ricordo indelebile possa essere qualcosa di innocuo. Voglio pensare che certa mentalità si sia sciolta come neve al sole in molti cuori. Certo, non in tutti. Mi sembra giusto e lecito che la Sicilia viva anche il suo secondo tempo, che non lo vivano solo i turisti. Mi piace pensare che bisogna sempre vigilare in questa notte buia, ma che ogni tanto si possa uscire “a riveder le stelle”.