Voglio farvi un esempio di cosa significa per me la locuzione “cultura digitale”.
Ero sulla timeline di Facebook il 3 gennaio e mi è capitato sotto gli occhi uno status di Matteo Tempestini, ingegnere informatico e non solo, che ha scritto questa riflessione:
“Primo pensiero del 2016: Siamo figli di un campanilismo tra città che oggi non ha più senso. Oggi io vedo #Firenze come un’estensione di #Prato. I fiorentini possono fare la stessa cosa con Prato, cosi come i pistoiesi, ma anche cittadini di città distanti dalla mia se si legano alla mia con un progetto comune. Nessuno può più pensare di “farcela da solo” anzi la logica del “farcela da soli” porta l’ “immobilismo innovativo” in cui a volte ci troviamo ad essere. In un momento in cui le risorse (umane ed economiche) sono scarse si vince se tra città diverse si riesce a fare squadra e non a fare competizioni gli uni contro gli altri. Proviamo ad “agganciare” i nostri territori tra loro con internet. Abbiamo tutti da guadagnarci qualcosa. #secondome #piattaforme #cittàintelligenti“
La sua riflessione (e il suo invito. Hey! Ho scritto: il suo invito), postata pubblicamente, mi ha permesso di rispondere con una mia testimonianza sul lavoro che si sta facendo per la città di Siracusa e questo ha innescato una conversazione fra di noi, fra Prato e Avola, a chilometri di distanza, che sta producendo questo articolo, ma non solo.
Nel frattempo, infatti, io sto lavorando sulle slide di presentazione del progetto di coding che vorrei portare qui ad Avola e che spero di fare presto con la partecipazione dei dirigenti scolastici e degli animatori digitali delle scuole di questa bella cittadina sul mare in cui vivo. La conversazione con Matteo mi ha fatto venire in mente ciò che vorrei comunicare di più e con forza:
la cultura digitale diffusa produce e amplifica la cultura in senso tradizionale del termine, nuove competenze, rinnovate conoscenze, contaminazioni, ci permette di lavorare su più livelli e fra persone con culture, età e competenze diverse, nonché in luoghi diversi nonostante le distanze e le differenze, imparando a condividere problemi, bisogni e soluzioni, adattando e migliorando le esperienze di successo attraverso un sistema aperto (open) e fluido qual è la rete (il web, internet) in quest’epoca e grazie agli strumenti già eccezionali che abbiamo a disposizione (pc, tablet, smartphone).
Ma come si forma la cultura digitale? Ha davvero a che fare con il saper programmare ovvero fare coding? Bisogna essere informatici per poter affermare di avere la padronanza della cultura digitale? Stiamo abbattendo a calci e con le mazze chiodate l’edificio immenso della cultura umanistica?
In realtà la cultura digitale utile a formare e sostenere i cittadini di oggi e di domani, gli individui e le collettività, non può prescindere da una scuola che sappia trasmettere tutte le conoscenze e il saper fare che ci possono permettere di avere una visione consapevole e critica della vita che ci sta venendo incontro ogni giorno: la storia, le scienze, la letteratura, l’arte.
I piccoli cambiamenti che dobbiamo affrontare ogni giorno e i macro cambiamenti sociali, storici, economici, ambientali positivi o negativi che siano, possono essere affrontati meglio se tutti noi abbiamo a disposizione gli strumenti per farlo e sappiamo anche come usare al meglio questi strumenti e come mantenerli efficaci nel tempo.
La cultura digitale non è altro che un mezzo immenso e potente che possiamo decidere di usare correttamente per diffondere conoscenza e consapevolezza, e magari anche le competenze per lavorare ed essere autonomi e padroni della nostra vita: la possibilità di scegliere sapendo cosa si sta scegliendo, senza tuffarsi alla cieca in un futuro incerto.
È qualcosa che permette a Matteo Tempestini di agire e raccontare gli open data e a me di comprenderne i meccanismi e diffonderne l’utilizzo.
In quest’ottica, portare il coding nelle scuole è utile a sviluppare il pensiero computazionale, ma anche a far impegnare gli studenti in progetti che li coinvolgano in prima persona portandoli a cercare e produrre le risposte di cui hanno bisogno e a mettere insieme, in maniera organica, quanto appreso nelle ore di studio.
Per questo e per altri motivi penso che coloro che operano nelle scuole e nelle università, coloro che fanno impresa, i rappresentanti della Pubblica Amministrazione e i governanti non debbano temere questo tipo di innovazione partecipata che sta nascendo grazie alla proliferazione di progetti per le città intelligenti, che richiedono un approccio ai dati, alle informazioni, di tipo open e condiviso, e alla diffusione di concetti quali la Circular Economy, che permette di sposare le istanze tipiche della tutela dell’ambiente con quelle della lotta alla crisi economica.
E, qualora volessimo essere considerati solo semplici cittadini, neanche noi dovremmo temere o disprezzare questo processo che ci sta inevitabilmente coinvolgendo: è vero che la partecipazione e la condivisione richiedono una certa dose di senso di responsabilità; qualsiasi miglioramento abbiamo sempre cercato, anche prima di quest’epoca, ha richiesto senso di responsabilità.
In un progetto partecipato da tutta la cittadinanza non accadrà più che il cambio di governance potrà influire anche negativamente sullo stato delle infrastrutture e dei servizi al pubblico perché ogni cittadino avrà la sua parte di controllo e responsabilità sui processi di PA.
Questo movimento di persone in ogni parte d’Italia e del mondo non è sotterraneo, non ha un gergo segreto, non è proprietario di ricchezze o conoscenze inaccessibili.
Non solo. Questo movimento di persone è impaziente di condividere tutte le informazioni e le buone pratiche che conosce con chi glielo chiederà. Se dovessero sembrarvi impazienti, non lo sono perché gli dà fastidio che non abbiate compreso, ma perché vorrebbero che gli aveste chiesto tutte le informazioni ieri.
[l’immagine di copertina è stata liberamente scaricata dal sito alphacoders.com]