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Se la cultura è digitale, la mente è open

Voglio farvi un esempio di cosa significa per me la locuzione “cultura digitale”.

Ero sulla timeline di Facebook il 3 gennaio e mi è capitato sotto gli occhi uno status di Matteo Tempestini, ingegnere informatico e non solo, che ha scritto questa riflessione:

Primo pensiero del 2016: Siamo figli di un campanilismo tra città che oggi non ha più senso. Oggi io vedo #‎Firenze‬ come un’estensione di #‎Prato‬. I fiorentini possono fare la stessa cosa con Prato, cosi come i pistoiesi, ma anche cittadini di città distanti dalla mia se si legano alla mia con un progetto comune. Nessuno può più pensare di “farcela da solo” anzi la logica del “farcela da soli” porta l’ “immobilismo innovativo” in cui a volte ci troviamo ad essere. In un momento in cui le risorse (umane ed economiche) sono scarse si vince se tra città diverse si riesce a fare squadra e non a fare competizioni gli uni contro gli altri. Proviamo ad “agganciare” i nostri territori tra loro con internet. Abbiamo tutti da guadagnarci qualcosa. #‎secondome‬ #‎piattaforme‬ #‎cittàintelligenti‬

screenshotPratoAvola

La sua riflessione (e il suo invito. Hey! Ho scritto: il suo invito), postata pubblicamente, mi ha permesso di rispondere con una mia testimonianza sul lavoro che si sta facendo per la città di Siracusa e questo ha innescato una conversazione fra di noi, fra Prato e Avola, a chilometri di distanza, che sta producendo questo articolo, ma non solo.

Nel frattempo, infatti, io sto lavorando sulle slide di presentazione del progetto di coding che vorrei portare qui ad Avola e che spero di fare presto con la partecipazione dei dirigenti scolastici e degli animatori digitali delle scuole di questa bella cittadina sul mare in cui vivo. La conversazione con Matteo mi ha fatto venire in mente ciò che vorrei comunicare di più e con forza:

la cultura digitale diffusa produce e amplifica la cultura in senso tradizionale del termine, nuove competenze, rinnovate conoscenze, contaminazioni, ci permette di lavorare su più livelli e fra persone con culture, età e competenze diverse, nonché in luoghi diversi nonostante le distanze e le differenze, imparando a condividere problemi, bisogni e soluzioni, adattando e migliorando le esperienze di successo attraverso un sistema aperto (open) e fluido qual è la rete (il web, internet) in quest’epoca e grazie agli strumenti già eccezionali che abbiamo a disposizione (pc, tablet, smartphone).

Ma come si forma la cultura digitale? Ha davvero a che fare con il saper programmare ovvero fare coding? Bisogna essere informatici per poter affermare di avere la padronanza della cultura digitale? Stiamo abbattendo a calci e con le mazze chiodate l’edificio immenso della cultura umanistica?

In realtà la cultura digitale utile a formare e sostenere i cittadini di oggi e di domani, gli individui e le collettività, non può prescindere da una scuola che sappia trasmettere tutte le conoscenze e il saper fare che ci possono permettere di avere una visione consapevole e critica della vita che ci sta venendo incontro ogni giorno: la storia, le scienze, la letteratura, l’arte.

I piccoli cambiamenti che dobbiamo affrontare ogni giorno e i macro cambiamenti sociali, storici, economici, ambientali positivi o negativi che siano, possono essere affrontati meglio se tutti noi abbiamo a disposizione gli strumenti per farlo e sappiamo anche come usare al meglio questi strumenti e come mantenerli efficaci nel tempo.

La cultura digitale non è altro che un mezzo immenso e potente che possiamo decidere di usare correttamente per diffondere conoscenza e consapevolezza, e magari anche le competenze per lavorare ed essere autonomi e padroni della nostra vita: la possibilità di scegliere sapendo cosa si sta scegliendo, senza tuffarsi alla cieca in un futuro incerto.

È qualcosa che permette a Matteo Tempestini di agire e raccontare gli open data e a me di comprenderne i meccanismi e diffonderne l’utilizzo.

In quest’ottica, portare il coding nelle scuole è utile a sviluppare il pensiero computazionale, ma anche a far impegnare gli studenti in progetti che li coinvolgano in prima persona portandoli a cercare e produrre le risposte di cui hanno bisogno e a mettere insieme, in maniera organica, quanto appreso nelle ore di studio.

Per questo e per altri motivi penso che coloro che operano nelle scuole e nelle università, coloro che fanno impresa, i rappresentanti della Pubblica Amministrazione e i governanti non debbano temere questo tipo di innovazione partecipata che sta nascendo grazie alla proliferazione di progetti per le città intelligenti, che richiedono un approccio ai dati, alle informazioni, di tipo open e condiviso, e alla diffusione di concetti quali la Circular Economy, che permette di sposare le istanze tipiche della tutela dell’ambiente con quelle della lotta alla crisi economica.

E, qualora volessimo essere considerati solo semplici cittadini, neanche noi dovremmo temere o disprezzare questo processo che ci sta inevitabilmente coinvolgendo: è vero che la partecipazione e la condivisione richiedono una certa dose di senso di responsabilità; qualsiasi miglioramento abbiamo sempre cercato, anche prima di quest’epoca, ha richiesto senso di responsabilità.

In un progetto partecipato da tutta la cittadinanza non accadrà più che il cambio di governance potrà influire anche negativamente sullo stato delle infrastrutture e dei servizi al pubblico perché ogni cittadino avrà la sua parte di controllo e responsabilità sui processi di PA.

Questo movimento di persone in ogni parte d’Italia e del mondo non è sotterraneo, non ha un gergo segreto, non è proprietario di ricchezze o conoscenze inaccessibili.

Non solo. Questo movimento di persone è impaziente di condividere tutte le informazioni e le buone pratiche che conosce con chi glielo chiederà. Se dovessero sembrarvi impazienti, non lo sono perché gli dà fastidio che non abbiate compreso, ma perché vorrebbero che gli aveste chiesto tutte le informazioni ieri.

 

[l’immagine di copertina è stata liberamente scaricata dal sito alphacoders.com]

 


Open data e smart community, cosa succede a Siracusa

Cosa accadrebbe se, enti, organizzazioni, associazioni, confederazioni presenti a vario titolo in una città e che si occupano di monitorare ambiente, traffico, meteo, coste marine, zone archeologiche e museali, imprese, esercizi commerciali, horeca, cinema e teatri avessero a disposizione una piattaforma istituzionale per inserire i dataset proprietari aperti ? (La ridondanza è voluta).

Questo articolo è diretto a loro, è un invito a prendere in considerazione la pratica della condivisione dei dati in loro possesso. Ovviamente, per chi fosse a digiuno di queste pratiche, non sto parlando di dati sensibili, ma di informazioni che normalmente si trovano frammentate su siti, elenchi e brochure, ma che potrebbero essere messe insieme per creare applicazioni utili a tutti, cittadini e turisti. Facendo girare l’economia e rendendoci la vita più facile e bella.

Il 3 e 4 dicembre 2015 si è tenuto a Siracusa un incontro prezioso, due giorni per riflettere e confrontarsi sulle opportunità che il digitale offre per l’urbanesimo del futuro della città del nord est siciliano. Presso la Camera di Commercio del comune, il convegno “Siracusa smart city strategy” ha coinvolto amministratori locali, stakeholder e i cittadini in un format basato sul brainstorming e lo storytelling di ciò che rappresentano la cultura digitale e il concetto di smart community per la società civile tutta.

Gli obbiettivi guida, ovvero mobilità, partecipazione, fare impresa e ambiente, sono stati analizzati e riscoperti grazie al sostegno del piano di sperimentazione del progetto Prisma, finanziato dal MIUR per lo sviluppo di una piattaforma IT innovativa di servizi e-government basati su cloud (il portale web www.siracusa-smartcity.it), scelta dall’amministrazione locale per digitalizzare i processi di gestione della città e renderli più fruibili e smart per i suoi abitanti. (Rif. comunicato stampa a cura di Giorgio Pennisi, Ufficio stampa Prisma).

Qui su Apirolio tenterò di esporre in lungo e in largo la due giorni appena conclusa, mentre, se avete voglia di una piccola storia e di un riassunto divulgativo del progetto, potete seguire questo link al mio articolo su Siracusa Online, che mi ospita gentilmente per la terza volta con mia grande gioia.

La nuvola di concetti, pratiche e idee nate dal confronto è la seguente:
open data, tracciabilità, coinvolgimento, valore, bidirezionale, monitoraggio, feedback, legalità, reti di reti, digitalizzazione, evidenza delle procedure.

Su tutti, mi permetto di affermare che spiccano gli open data; soprattutto in questo momento in cui la Pubblica Amministrazione deve necessariamente adattarsi e strutturarsi per operare attraverso il digitale e, soprattutto, nel momento in cui la vita di tutti noi è pervasa dall’uso consapevole e inconsapevole degli strumenti tecnologici a nostra disposizione.

I dati aperti sono l’ennesima opportunità da non perdere, come ci raccontano Francesco Paolicelli per Lecce e Matteo Tempestini per Prato.

Quindi

COSA SONO GLI OPEN DATA? COSA RAPPRESENTANO PER IL COMUNE DI SIRACUSA? (Una nota a cura di Tarcisio Costanzo)

Il fenomeno degli Open Data per i comuni e l’amministrazione pubblica in generale risponde ad una precisa Direttiva del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione.

Il comune di Siracusa, aderendo al piano di sperimentazione del progetto Prisma, si avvantaggia della disponibilità di una piattaforma innovativa tra le cui soluzioni, totalmente open source, integrate su infrastruttura cloud e fruibili come unico strato PaaS (Platform As A Service), prevede un portale dedicato alla pubblicazione dei dati aperti.

Il componente di Prisma dedicato e opportunamente personalizzato a tale scopo è il noto sistema CKAN (ckan.org) uno degli strumenti più potenti oggi disponibili per la pubblicazione dei cosiddetti dataset, ossia i “dati aperti”.

Ogni dataset rappresenta una specifica tipologia di dati la cui origine può essere la più disparata, ma il cui processo di validazione e pubblicazione rispetta precise regole, sulla base delle quali ogni dataset viene anche classificato con l’attribuzione di un rating relativo a varie caratteristiche nonché al grado di interoperabilità.

Ogni dataset potrà inoltre essere correlato alle APP che lo utilizzano ed è a disposizione di chiunque voglia usufruirne per creare servizi e nuove soluzioni.

Nell’ambito del piano di sperimentazione Prisma le stesse soluzioni della piattaforma saranno le sorgenti principali dei dati pubblicati; in particolare, della soluzione del decoro urbano (City Reporter), verranno pubblicati i dati sulle segnalazioni di guasto o disservizi ricevute dai cittadini attraverso l’app, mentre della soluzione di mobilità (City Mover), verranno esposti i dati del servizio Siracusa D’Amare (navette elettriche) relativamente ai percorsi, fermate e orari delle navette in formato standard GTFS, un formato riutilizzabile da tutte le soluzioni che utilizzano questo standard di livello internazionale.

Si tratta dei primi due esempi concreti di opendata attraverso i quali si vuole aprire la strada ai processi di raccolta, normalizzazione, validazione e pubblicazione di una miriade di dati aperti che Siracusa sarà sicuramente in grado di produrre.

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Una conversazione con il digital champion Francesco @piersoft Paolicelli

Xoff Comunicare sul Futuro - 8 novembre 2015

Xoff Comunicare sul Futuro – 8 novembre 2015

Descrivere una persona come Francesco @piersoft Paolicelli è un compito arduo, sul suo profilo Facebook si definisce webmaster, ha studiato ingegneria presso il Politecnico di Bari, ha fatto parte della task force per l’agenda digitale in Basilicata, è un digital champion fra i più conosciuti, attivi e propositivi in Italia, vive fra Lecce e Matera, promuove CoderDojo come quello di ottobre 2014 a Matera che ha accolto ben mille ragazzi nell’evento di coding più grande che sia mai stato organizzato e si occupa quotidianamente di open data. 

Questo lungo elenco non è un’elegia, ma la mia speranzosa introduzione alla vulcanica conversazione telefonica che abbiamo sostenuto lunedì 9 novembre, mentre Francesco era in viaggio e io sotto il portico di casa a prendere aria perché dove vivo la ricezione della rete cellulare è pessima. Ne è valsa la pena. Se compito di un digital champion è essere fonte di ispirazione e innescare interesse e partecipazione e voi volete comprendere il presente e il futuro della cultura digitale in Italia, non dovete far altro che leggere ciò che segue. Buona lettura a tutti. 

Domanda: Francesco, quando ho iniziato a seguirti, ho dovuto subito cogliere i molteplici inviti a usare Telegram per sfruttare gli open data. Ma sinceramente non ho ancora afferrato correttamente cosa siano i bot e la differenza fra gli open data e OpenStreetMap. Ce la spiegheresti? Sono sicura che capire come funzionano queste informazioni su Telegram ci può dare la possibilità di usarle al meglio.

Risposta: I bot di Telegram possono poggiare sugli open data, che possono essere governativi, oppure su OpenStreetMap che è un sistema di geolocalizzazione aperto che funziona con lo stesso principio di Wikipedia: ogni utente può accedervi e aggiungere o modificare, migliorandole, le informazioni sul luogo in cui si trova qualsiasi esso sia: un museo, un ristorante, un albergo. OpenStreetMap è un esempio di opendata comunitario. Altra cosa è usare gli open data attraverso i bot di Telegram, per esempio rendendo la fruizione di questi dati facile per i non addetti ai lavori. Devi pensare che ci sono database infiniti, per esempio dei beni confiscati alla mafia oltre che dei musei, delle aree archeologiche, dei treni e dei mezzi pubblici e il governo italiano in questi mesi ne ha resi pubblici e accessibili molti. Questa è una cosa importante, perché tutti possono accedere a questi dati e usarli per condividerli, creare app, fare impresa. Il mio obbiettivo è arrivare a più persone possibile, diffondere il concetto di open data  e offrire a tutti la possibilità di usarli per la loro vita quotidiana. 

Fare divulgazione e divulgare l’uso di questi strumenti è la mia missione; il detto latino “communica te ipsum” non significa altro che “condividi te stesso” ed è il valore aggiunto di quest’epoca in cui il mondo (anche del digitale) sta pervadendo tutta la società e in cui non ho più bisogno di insegnanti che mi infondano nozioni dall’alto, ma di persone con competenze diverse che sappiano condividerle e contaminarsi a vicenda.

È per questo motivo per esempio, che considero il coding un aspetto fondamentale di un nuovo modo di fare scuola: la programmazione è un approccio attivo alla tecnologia e un approccio orizzontale alla conoscenza. Un cambiamento di mentalità che dobbiamo attuare adesso che stiamo conoscendo le prime generazioni di millennials, di nativi digitali che la tecnologia non devono subirla, ma esserne parte attiva. Ovviamente questo passo possono e devono farlo anche i genitori, noi che siamo nati in un universo analogico, anche noi non dovremmo subire le nuove tecnologie, ma farle nostre, per comprenderle e usarle in maniera critica e trasmettere questo concetto ai nostri figli.

Gli open data, come dicevo, sono uno dei modi per arrivare a questo approccio aperto e orizzontale. Bisogna ricordarsi che l’origine stessa di Internet, del world wide web, cioè Arpanet, era la piattaforma attraverso cui gli scienziati di tutto il mondo condividevano i risultati delle loro ricerche per confrontarsi e trovare soluzioni comuni. Il principio di Arpanet era anche volto ad un risparmio a livello economico: la condivisione dei dati produce anche questo bel risultato. Si risparmiano tempo e denaro fruendo liberamente dei risultati ottenuti da altri, invece che ripetere ricerche e creare ex novo informazioni già prodotte da altri. Questo principio per esempio è alla base degli open data usati dalla Svizzera per le informazioni sul trasporto pubblico come i treni: gli svizzeri possono usufruire per esempio dei dati di Trenitalia e io posso appoggiarmi ai bot svizzeri per ricavare queste informazioni, ma perché in Italia non sono stati messi a disposizione.

Tornando alla Scuola, trovare persone ricettive da questo punto di vista è un lavoro impegnativo, ecco perché occorre lavorare molto sulla missione dei coderdojo. Uno dei messaggi più importanti dati ai bambini che fanno coding è Be Cool: sii figo. Questo i bambini lo capiscono, quando fanno coding si divertono, acquisiscono molte competenze e loro stessi possono diventare mentori di altri bambini, innescando un circolo virtuoso e gratificante. Comprendere la cultura digitale e trasmettere competenze a livello tecnologico abbatte la cultura di tipo cattedratico e le storiche arretratezze infrastrutturali di cui soffriamo soprattutto nel sud dell’Italia: che tu viva in città o in un’area rurale hai la stessa possibilità di accedere alla conoscenza e di essere libero.

D: Qual è lo stato dell’arte della figura del digital champion in Italia? Come viene percepito dalle istituzioni e dagli stakeholder: ambasciatore, divulgatore oppure come una figura propositiva, come un innovatore? Un consiglio che ti sentiresti di dare ai nuovi digital champion e agli stakeholder che occupano il tessuto istituzionale delle nostre città.

R: A proposito di questo posso dirti che il 20 e il 21 novembre di quest’anno abbiamo un raduno a Torino. È sorta la necessità di discutere della figura del digital champion in Italia perché molti di noi non son riusciti a relazionarsi efficacemente con le istituzioni e con la cittadinanza e si sono dimenticati che il senso di questo incarico è la divulgazione della cultura digitale e delle best practice utili a creare e consolidare i nuovi modi in cui si può esprimere il senso civico e la società contemporanea. Occorre spendersi per la crescita del territorio e occorre farlo in autonomia attraverso una rete di persone reale e animata dagli stessi intenti. Ci incontriamo anche per fare il punto di un anno di attività e vedere le cose belle fatte da ognuno, e le ombre dell’associazione.

La figura del digital champion è diffusa in tutto il mondo, ma normalmente ne esiste una per nazione, per esempio il digital champion di fatto degli Stati Uniti è Barack Obama, ma in Europa (dove la carica del Digital Champion è ufficiale e voluta dall’EU) è, per esempio, nel caso dell’Estonia, impersonata dal premier stesso. Di solito vengono incaricate figure emblematiche per la società civile, il Governo ha voluto fortemente Riccardo Luna per l’Italia e noi siamo l’unico paese al mondo in cui il digital champion ufficiale ha deciso di condividere onori e oneri con altri come lui, creando un sistema che dovrebbe diffondersi fino ad arrivare ad avere un digital champion per comune. In questo modo, secondo l’idea di Riccardo, ogni luogo di Italia potrà avere la possibilità di beneficiare di una figura che si occupi di divulgazione sul territorio in maniera capillare. Uno degli obbiettivi della riunione che faremo a breve è capire chi di noi può supportare attivamente queste istanze ed, eventualmente, creare dei piani di coordinamento locali per non farci sentire isolati e darci gli strumenti e i modi per agire mettendo a fuoco gli obbiettivi. I DigitCh fungono da substrato di unione per esempio tra la PA e gli stakeholders, tra la Scuola 1.0 e il mondo del coding.

OpenDataLecce

D: Di Matera 2019 se ne parla poco oppure è solo un’impressione? Mi risulta che uno dei motivi per i quali è stata scelta sia stato il grande evento coderdojo di ottobre 2014: a distanza di un anno è possibile tirare le somme dello slancio dato alle prospettive future della città e dei suoi bambini?

R: L’avventura di Matera è stata fortemente voluta dall’amministrazione comunale precedente. Esiste un dossier in cui io sono stato nominato a mia insaputa, in cui sono stati evidenziati, tra le altre cose, tutti gli steps partecipativi che abbiamo affrontato per arrivare alla designazione di Matera come Capitale della Cultura del 2019. Io ho partecipato come volontario del WebTeam Matera 2019 a tutte le attività propedeutiche a questo successo, perché sono nativo di Matera, ma vivo a Lecce, ed ero parte dell’amministrazione comunale di quel periodo. Sono state coinvolte molte personalità della cultura, anche a livello internazionale, e tutto questo, compreso il CoderDojo di ottobre 2014 è stato fatto innanzitutto per avviare l’autentica rinascita della città. La designazione di Matera a Capitale della Cultura è stato un benefico effetto collaterale.

Bisogna radicarsi nel territorio e proiettarsi nel futuro, questa cosa potrebbe andare perduta dall’amministrazione comunale odierna di Matera, perché purtroppo al momento c’è uno scontro di forze in campo dove stanno prevalendo interessi miopi. Pensa al concetto di open data di cui parlavamo prima: si portano dentro la trasparenza e la politica nazionale e locale dovrebbe fare sue queste istanze e non pensare solo ad ottenere qualcosa per sé stessa. Il governo Renzi, per esempio ha fatto una gran cosa sorpassando gli enti locali e rendendo pubblici tutti i dati relativi all’uso dei soldi pubblici. In questo momento, se io cittadino, volessi conoscere ciò che il mio comune di residenza sta facendo a livello economico posso consultare portali come soldipubblici.gov.it oppure openexpo e altri, senza dimenticare il database dei bei confiscati alla mafia messo in formato “decente” e opendata dal gruppo di Confiscatibene.it (consultabile anche da Telegram attraverso questo link https://telegram.me/confiscatibenebot). Questa condivisione di informazioni crea un ritorno economico diffuso, come dicevo prima, coinvolgendo gli stakeholder.

Tornando alla “Capitale”, coloro che amministrano Matera adesso dovrebbero comprendere che per la città è già stato fatto questo passaggio e che l’Europa si aspetta molto da loro in questi termini. Nelle motivazioni della vittoria di Matera 2019, non c’è solo la bellezza della città (che è un’invariante rispetto alle altre città) ma la sua visione del futuro legata anche alle nuove tecnologie e “al coding per i ragazzi”.

D: Un suggerimento o uno schema su come affrontare o superare il digital divide da un lato e l’analfabetismo funzionale dall’altro qui in Italia.

R: Qui devo dirti che non è un problema di informatizzazione, ma di creare una comunità di persone e anche di professionisti che comprendano che il patrimonio informativo è e deve essere pubblico e i dati devono essere interoperabili. Alcune città questa cosa la stanno già facendo, Bari con baritransport.bot oppure Lecce. Ovviamente l’uso degli open data attraverso Telegram è solo un esempio. È una questione di concorso di competenze e cooperazione. Tutte le ricette sono valide e devono essere sommate, non è più utile pensare che qualcuno sia più bravo di altri, ma sicuramente riunirsi per parlarne e anche scannarsi a vicenda crea contaminazione e commistione e tutti ne possiamo uscire migliorati.


Polaris: qualità della vita, resilienza ai disastri e il futuro degli open data

Quale potrebbe essere un argomento di massimo interesse collettivo nell’ambito dell’innovazione e delle problematiche legate all’ambiente e al territorio in Italia?

polaris

Quando mi sono posta questa domanda, ho deciso di prendere spunto dalle cronache di questi primi giorni d’autunno e ho scoperto l’esistenza di una piattaforma web, “POLARIS, Popolazione a rischio da frana e da inondazione in Italia”, che ha l’obbiettivo di coinvolgere cittadini, imprese, enti governativi e di ricerca scientifica in quelle che vengono chiamate best practice, buone pratiche, per l’ambiente e la qualità della vita.

Un universo di pratiche che coinvolgono concetti come la Circular Economy, la resilienza, gli open data, la partecipazione dal basso, la qualità della vita, l’engagement di utenti e gli obbiettivi dei finanziamenti stanziati dall’Unione Europea.

Posso affermare che la scoperta sia in qualche modo avvenuta grazie alla partecipazione allo speed networking presso Impact Hub a Siracusa (ve ne ho parlato recentemente). Hubber come me, ma soprattuto Manager di Progetti di Ricerca ed Innovazione e Coach, Umberto Pernice, di Palermo, impegnato in progetti collaborativi nell’ambito della resilienza ai disastri naturali, ci racconterà delle iniziative legate ad attività di ricerca e innovazione e del suo ruolo nella consulenza per la realizzazione di questa e di altre iniziative.

Domanda: Cos’è POLARIS? Risponde in qualche modo a necessità espresse dal basso?
POLARIS è un sito web progettato e gestito dall’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (IRPI) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e contribuisce a rispondere alle domande e alle richieste di informazioni da parte di media, amministratori nazionali, regionali e locali, e anche singoli cittadini, sui rischi idrogeologici. Il sito fornisce informazioni puntuali sulle caratteristiche, la frequenza e la severità degli eventi relativi a frane ed alluvioni, incluso il numero di morti, dispersi, feriti, sfollati e senzatetto causati da tali eventi. Sono numeri indispensabili per definire i livelli di rischio idrogeologico, identificare le aree dove il rischio è alto e valutare l’impatto sociale ed economico di tali eventi. In aggiunta il sito fornisce informazioni utili per migliorare la resilienza dei cittadini a tali disastri con suggerimenti su cosa fare (e non fare) prima, durante e dopo tali eventi. I post vengono promossi anche sui principali social network (@CNR_IRPI su Twitter) generando una significativa partecipazione e condivisione fra concittadini e istituzioni.

D: Quali sono i tempi di realizzazione di iniziative di questo tipo?
L’iniziativa ha richiesto la pianificazione ed il coordinamento di un lavoro durato oltre un anno tra i ricercatori dell’IRPI-CNR, informatici e web designer, per la realizzazione del sito. E la stessa prosegue con la progettazione di altre sezioni del sito, considerando le statistiche di traffico di utenza. C’è l’interesse a comprendere meglio la percezione che media e cittadini hanno dell’informazione in esso contenuta per capire se e come la stessa possa essere alimentata anche dal basso, come le iniziative aperte ad accogliere dati ed informazione di tipo “
crowd”.

D: Esiste qualcosa di simile a POLARIS in ambito prettamente europeo?
Non esistono ancora iniziative di rilevanza europea che informino cittadini europei in maniera così dettagliata sugli eventi legati ai rischi naturali ed al relativo impatto sulla popolazione, sebbene l’attenzione verso queste tematiche da parte dei cittadini si dimostri crescente, anche attraverso l’uso dei social network. La Commissione Europea finanzia progetti di ricerca ed innovazione sulle tematiche della resilienza ai disastri i cui risultati vengono divulgati anche ai cittadini, nell’ambito dei programmi COPERNICUS e del Programma Quadro della Ricerca e Sviluppo Tecnologico Europeo. Uno di questi progetti, LAMPRE (www.lampre-project.eu), tratta di metodi, prodotti e servizi innovativi basati sull’utilizzo di tecnologie satellitari, per migliorare, attraverso mappe, software, linee guida e standard, le capacità degli enti pubblici nelle attività di prevenzione dal rischio da frane.

4) Chi è Umberto Pernice e qual è il tuo ruolo in questo tipo di iniziative?
Sono un consulente indipendente, impegnato a facilitare i processi di generazione collettiva di idee e soluzioni innovative, generate attraverso progetti europei di ricerca ed innovazione. Di tali processi seguo tutti gli aspetti gestionali: dalla pianificazione ed organizzazione delle attività di ricerca ed innovazione alla guida nell’implementazione e controllo del raggiungimento dei risultati, svolgendo un ruolo di catalizzatore e mediatore tra soggetti diversi. Si tratta di facilitare le interazioni tra il mondo della ricerca (mi riferisco a biologi, fisici, geologi, ingegneri, architetti, socio-economisti, ecc.), delle imprese di ogni entità, delle autorità governative e non, anch’esse a tutti i livelli, dei cittadini e della società civile tutta. I progetti di ricerca ed innovazione collaborativa interessano vari ambiti di ricerca, adottano approcci interdisciplinari ed hanno come denominatore comune l’attenzione verso la protezione e valorizzazione dell’ambiente e l’incremento della resilienza dei cittadini ai disastri naturali ed umani. In quest’ampio ambito di azione, il mio ruolo è quello di organizzare incontri per co-creare idee e soluzioni innovative, analizzando le aspettative della Commissione Europea di altre Autorità di Gestione definite nel testo dei bandi di finanziamento dell’Unione Europea, alla luce delle politiche europee e dei risultati dei progetti europei pregressi. Identifico soggetti impegnati in Europa e nel mondo su queste tematiche e ne favorisco l’aggregazione in consorzi per lo sviluppo di proposte. Aiuto nell’interpretazione dei tecnicismi e nell’adempimento delle attività ancora ampiamente burocratiche che caratterizzano i testi dei bandi europei e le attività necessarie al loro adeguato utilizzo.

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D: Innovazione, ambiente e qualità della vita: perché?
Perché sono concetti fortemente interdipendenti. Nel 2015 facciamo ancora fatica ad accorgerci del grande divario nella qualità della vita degli abitanti del pianeta e della sperequazione nell’uso delle risorse e dell’impatto disastroso sull’ambiente. Il concetto di innovazione nella società odierna, fortemente interconnessa tramite internet, continua ad evolversi adottando i paradigmi dell’innovazione aperta, collaborativa e sociale: oggi si può investire sul contributo che ognuno di noi cittadini può dare nell’identificazione dei bisogni di innovazione per una società più rispettosa dell’ambiente e della qualità della vita.

D: Salvaguardia dell’ambiente e della qualità della vita quanto incidono a livello economico?
È un argomento ampio e dibattuto. Posso dire che da una parte c’è la Commissione UE che finanzia l’Area Europea della Ricerca affinché l’Europa possa meglio competere con gli Stati Uniti, la Corea, Cina, India ed altri paesi emergenti in logica di crescita sostenibile, mentre dall’altra esistono approcci socio-economici (come quello di Serge Latouche) che propongono concetti di “decrescita felice” in risposta ad uno sviluppo vantato come sostenibile e che tale invece non può essere, vista la limitatezza delle risorse naturali e la sperequazione che i modelli economici attuali generano nelle società.

D: Fra crescita e decrescita, pensare di spalmare il più possibile fra la popolazione mondiale quello che già abbiamo a nostra disposizione avrebbe senso? È previsto?
Credo che in questo caso possiamo introdurre il concetto di economia circolare che può collocarsi fra i due termini, cioè fra crescita sostenibile e decrescita. Con la Circular Economy possiamo riutilizzare intelligentemente tutte le risorse, cioè materie prime, semilavorati, prodotti, scarti, tecnologie e anche conoscenze. Tutto questo integrando il concetto di eco-innovazione, caro ai programmi UE e alla Ricerca, che focalizza l’attenzione sul minimizzare l’impatto che processi, prodotti e servizi arrecano all’ambiente.

D: Facciamo un passo indietro. Hai 15 anni di attività alle spalle, hai iniziato anni prima che si iniziasse a parlare diffusamente di innovazione, come hai costruito queste competenze?
È una sorta di puzzle di competenze fortemente voluto. Mi sono laureato in Economia e Commercio nel 1996 con una tesi che parlava di marketing applicato all’Arte, ai Beni Culturali. Ho proseguito con un Master in Gestione di Impresa per operare come analista all’estero: dal Sudafrica (trattando di statistica multivariata) all’Irlanda e Regno Unito (nell’ambito delle tecnologie informatiche) con imprese multinazionali. Sono quindi rientrato in Italia per tuffarmi nella consulenza sugli aspetti funzionali delle tecnologie all’interno dei laboratori di ricerca e sviluppo di imprese di tutte le dimensioni e di vari dipartimenti di università e di enti di ricerca, sviluppando conoscenze in ambiti multi-disciplinari per sviluppare progetti di ricerca e sviluppo tecnologico e progetti di cooperazione transnazionale.

D: Esistono altre realtà in Italia come la tua? 
La mia attività integra vari approcci ed io non mi identifico nell’etichetta del progettista europeo, di colui che studia gli strumenti di finanziamento e coltiva relazioni con i vari enti per ottimizzarne l’uso. Io coltivo la “gestione dell’innovazione collaborativa” (
collaborative innovation management). Devo essere attento a comprendere il contributo che la partecipazione di soggetti diversi dà alla creazione e all’implementazione dei progetti e, al contempo, devo far sì che il management non smorzi i contesti creativi.

D: Ti è capitato di incontrare i fruitori finali di questi progetti, noi cittadini europei?
Sì, spesso nei momenti iniziali di divulgazione, durante le conferenze. Come nel caso dei progetti LAMPRE e del progetto CATCH che ha prodotto una piattaforma tecnologica che veicolava le persone verso scelte di mobilità consapevole quali tram, metro e bici e che spingeva verso la consapevolezza dell’impatto delle emissioni di CO2 sull’ambiente e sulla nostra vita e verso i benefici collaterali come la riduzione delle malattie cardio-vascolari e l’incremento del valore delle aree urbane meno congestionate. Negli ultimi anni i progetti di cui mi occupo coinvolgono i cittadini nella fase di concepimento dell’idea attraverso workshop che utilizzano tecniche di lavoro partecipative e il service design per stimolare l’utilizzo di dati aperti.

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