Assistente in progettazione sociale: un corso, molteplici prospettive

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Avete mai sentito parlare di impresa sociale? E di progettazione e innovazione sociale? Se sì, e non siete stakeholder del settore, vi sarete sicuramente chiesti come sia possibile acquisire competenze in questi campi, forse avete un progetto nel cassetto, ma non avete abbastanza strumenti e conoscenze per affrontare il monolite dei fondi europei e Horizon 2020 vi sembra irraggiungibile. Oppure vorreste acquisire nuove competenze per risolvervi a rinnovare il vostro curriculum vitae, per dare una svolta diversa alla vostra vita lavorativa.

Dal 5 maggio al 10 giugno, presso la sede di Impact Hub Siracusa, si svolgerà la seconda edizione del corso di formazione professionale in Progettazione e Innovazione Sociale. Io ho partecipato alla prima edizione, fra gennaio e febbraio di quest’anno, ed è stato molto utile.

Uno dei futuri possibili e immediati nel mondo del lavoro è sicuramente fare impresa sociale e occuparsi di progettazione da questo punto di vista: l’Europa stessa sta già stanziando fondi in questo settore, con Horizon 2020 siamo già proiettati in una fase propositiva e di avviamento concreto di imprese low profit che mirano alla costituzione di nuove realtà che riescano a coniugare istanze economiche e sociali, appunto.

La mia esperienza di corsista è stata più che soddisfacente perché il corso è organizzato da esperti che vivono quotidianamente la realtà di imprese sociali, che fanno progettazione a livello europeo e locale, che si occupano di startup, di comunicazione, di fondi dedicati, che conoscono e praticano, insomma, i diversi aspetti che compongono il corso.

Soprattutto, durante il corso, ogni modulo di cui è composto prevede quelle che possiamo chiamare esercitazioni pratiche, ma che hanno il valore aggiunto di essere condotte all’interno di un ambiente e di un gruppo di lavoro per i quali un’esercitazione ha la reale possibilità di diventare “fare impresa sociale” applicata.

Questo può accadere perché vi saranno forniti tutti gli strumenti utili: dal business model canvas al quadro logico, passando per lo storytelling e le tecniche per fare un buon pitch, dalla guida ai fondi europei alle indicazioni fondamentali per districarsi in ambito economico. Senza dimenticare un’analisi approfondita di concetti quali l’innovazione di prodotto, di processo e di servizio oppure quella delle politiche sociali ed economiche.

Inoltre, un valore aggiunto da non dimenticare, è il mutuo scambio di competenze e informazioni che arriva dai partecipanti stessi a corsi di questo tipo. Siamo stati una bella classe, con personalità e un bagaglio di esperienze lavorative importanti e interessanti e credo che questa seconda edizione, sarà altrettanto densa di incontri, conoscenze e opportunità.

C’è molto da raccontare, ma non è possibile riassumere un corso di questo livello in un blog post. Il mio invito è a informarsi e passare a visitare gli ambienti accoglienti e stimolanti di Impact Hub presso i quali si svolgerà il corso. Chissà che non ci incontriamo 😉

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L’Italian Internet Day e la scuola buona

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Avevo dodici anni nel 1986: i miei interessi e le mie passioni non contemplavano affatto termini come “tecnologia” e “innovazione”. Una locuzione come Italian Internet Day mi avrebbe lasciata esterrefatta e diffidente.

Se mi avessero mostrato una donna che racconta a una scolaresca come difendersi dai cyberbulli in piedi accanto a una scatoletta grigia e piatta, non mi sarei riconosciuta.

Eppure, se sono passati trent’anni, non me ne sono accorta, perché le esperienze di questi mesi mi hanno restituito lo stesso sguardo incantato che allora posavo sul mondo.

Il 28 aprile, insieme alle docenti della scuola primaria Caia, con il supporto energico di Giuseppina Di Pietro, abbiamo portato con successo Coding 4 Avola con Cody Roby in 5B e 5C: i bambini giocano, si divertono e riflettono. Come ho già avuto modo di scrivere, fanno anche tante domande, sono curiosi ed entusiasti, nonostante Cody Roby non sia programmazione al computer, nonostante la maggior parte di loro conoscano già e usino Minecraft.

Il 29 aprile, in occasione del trentennale dell’avvento di Internet in Italia, insieme a Clementina Amato, animatrice digitale della scuola primaria Edmondo De Amicis di Avola, oltre a fare un’ora di coding unplugged, abbiamo proposto a due classi seconde, un’ora informativa basata sui suggerimenti di Generazioni Connesse. I video dei Super Errori di Generazioni Connesse sono un modo semplice e immediato per spiegare ai bambini come tutelarsi quando sono in rete o usano i device mobili e fanno parte di un percorso dedicato anche a genitori e insegnanti.

Anche in questo caso, bambini di soli sette anni sono stati eccezionali e mi hanno aiutato a comprendere un po’ di più la loro percezione di strumenti come i pc e gli smartphone: anche in seconda elementare molti di loro conoscono già giochi complessi come Minecraft, si scattano le fotografie e, a volte, chattano con i loro amici.

Di gran lunga preferiscono giocare, ma sono già consapevoli che i mezzi che hanno a disposizione devono essere usati con cautela, sanno già che devono prestare attenzione a chi scrivono o con chi condividono i loro pensieri e le loro fotografie. Sanno anche che c’è un tempo per riposare, per studiare e per stare per conto proprio e che lo smartphone non deve essere un compagno inseparabile.

Se quelli della mia generazione erano (o sono?) come bambini di fronte a mezzi di comunicazione e intrattenimento così potenti, il mio augurio è che questi piccoli nuovi arrivati nel mondo, siano più bravi di noi a cogliere e sfruttare i potenziali positivi di internet e degli strumenti che abbiamo a disposizione, per costruire concretamente un mondo migliore.

Sono consapevole di aver scritto una considerazione che appare banale e frettolosa, ma sono anche convinta che questi trent’anni devono spingerci a guardare avanti e a progettare con cura il futuro e per questo, trasmettere spunti, curiosità e interesse alle nuove generazioni, è importante.

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Coding 4 Avola

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È così è successo, il 20 aprile 2016 sono entrata nella classe I C della scuola media inferiore Elio Vittorini di Avola, accolta dal professor Francesco Munafò (matematica!) e abbiamo fatto coding analogico con il gioco Cody Roby.

Se per noi adulti, soprattutto quelli di noi avvezzi alla cultura digitale e all’informatica, può sembrare cosa insignificante, questa piccola esperienza condita di video sul pensiero computazionale, su Cody Roby, Scratch e Minecraft, ha entusiasmato tutta la classe ed è stato bellissimo vederli giocare e ragionare.

Una classe speciale, innanzitutto perché Francesco Munafò li fa giocare spesso a scacchi e dama (e infatti hanno spontaneamente confrontato questa loro esperienza con quella del coding che gli abbiamo presentato ieri), e poi, perché come tutte le classi, la loro individualità, le loro peculiarità, sono state le vere protagoniste dell’ora e mezza trascorsa insieme.

Devo ringraziarli questi ragazzi, perché portargli questo progetto sta aiutando me a comprendere molto e a imparare. Ho presentato e porterò la prossima settimana, Coding 4 Avola anche nella scuola primaria Caia, nelle classi 4 e 5 delle sezioni B e C e ho scoperto molte cose interessanti, almeno per me.

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I millennials conoscono e usano già Minecraft, fanno coding senza sapere davvero lo strumento che hanno tra le mani, ma quando gli raccontiamo che è un po’ come se facessero i programmatori informatici, gli occhi si illuminano. Questa esperienza è trasversale fra i generi, anche se ancora adesso, sono molti di più i maschi a dedicarsi a questi giochi e a questi interessi.

Voglio sottolineare che non è mia intenzione ridurre il coding e la diffusione consapevole del pensiero computazionale alla mera programmazione informatica: quando ho raccontato Coding 4 Avola agli animatori digitali e ai loro colleghi, ho sostenuto un concetto più complesso (passatemi la vanità).

In quest’ultimo anno, mi sono resa conto che il mondo del lavoro è sempre più esigente, richiede un mix di competenze e di culture che contemporaneamente settoriale, altamente professionale, ma anche trasversale: detto in parole povere, non si può più essere solo medici, solo architetti, solo programmatori, solo baristi, ma occorre conoscere i mondi accanto al nostro settore specifico di lavoro e sapersi affiancare a coloro che praticano la cultura digitale a tutto tondo.

Internet, il web e i social media, sono strumenti, la programmazione è uno strumento, dobbiamo conoscerli, il mondo al di fuori della scuola si sta evolvendo a rotta di collo e i giovanissimi hanno bisogno di essere preparati. Di contro, gli insegnanti e gli scolari sono già tanto bersagliati e carichi di lavoro. È vero che il mondo della scuola spesso fa fatica a stare al passo, ma è anche vero che l’impegno richiesto è già gravoso, mentre ogni istituto ha le sue problematiche da affrontare, fra queste: le difficoltà di alcuni studenti, la povertà di mezzi di alcune famiglie, i problemi specifici di alcune zone d’Italia.

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Una parte di questa storia l’ho già raccontata sulle pagine di questo blog: durante l’estate del 2015 ho iniziato a leggere articoli sul coding nelle scuole, poi ho incontrato Viviana Cannizzo di Impact Hub Siracusa e grazie a lei ho conosciuto il progetto di coding per le scuole e ho partecipato da spettatrice ad un evento di programmazione green con Arduino.

In quei mesi si parlava molto di digital champion e di quello che ognuno di noi, appassionati di cultura digitale in toto, avremmo potuto fare per diffondere buone pratiche fra i giovanissimi. Mi sono chiesta se nel cittadina in cui vivo si fossero già avviati progetti di coding e ho iniziato a parlarne e a chiedere in giro, finché non sono arrivata a presentare il mio piccolissimo progetto per le scuole di Avola all’assessore all’istruzione e allo sportello pedagogico.

Infine, ho conosciuto tre degli animatori digitali designati, perché nel frattempo era stato varato il Piano Nazionale Scuola Digitale dal MIUR e l’operazione digital champion si è in qualche modo conclusa (anche se le istanze lanciate da Riccardo Luna non si sono fermate). Clementina Amato, Francesco Munafò e Vincenzo Rossitto sono degli insegnanti splendidi, prima di tutto; grazie a loro ho conosciuto altri docenti delle scuole medie inferiori e delle scuole primarie che hanno accolto me e il mio piccolo progetto come se fosse un grande tesoro, ne parlerò la prossima settimana.

Cosa accadrà nei prossimi mesi dipende da molti fattori, nel frattempo, spero di migliorare il progetto e di coinvolgere in modo sempre più efficace i ragazzi e gli insegnanti.

Grazie! 🙂

Vi lascio con un articolo apparso su TechEconomy a marzo di quest’anno: lo considero una riflessione dura, ma utile.


Free Wheeling Tour: fare impresa favorendo il turismo accessibile

Siciliani e siracusani di ritorno da esperienze di vita e di lavoro all’estero o in altre regioni di Italia ne ho incontrati molti da quando ho iniziato a frequentare Impact Hub Siracusa. Sono persone che credono nelle potenzialità di questa terra e sono legate ad essa da un amore sincero e lucido. Conoscono pregi e difetti della Sicilia e per questo desiderano sviluppo sociale ed economico per questi luoghi così belli e ricchi di Storia e di storie.

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A volte, come tutti noi in ogni dove in Italia, ritornano all’isola con competenze professionali preziose, altre con idee e progetti nati dal confronto con diverse realtà nazionali e dall’analisi dei bisogni che in qualche modo non vengono soddisfatti.

Non voglio partire con la disamina distruttiva delle mancanze, ma sottolineare che andare incontro ai bisogni sul territorio in cui viviamo, può creare reale opportunità di fare impresa; quindi, fare rete con gli stakeholder esistenti, aggiunge valore e forza alle iniziative e ai progetti. Così stanno facendo i quattro fondatori di Free Wheeling Tour (Daniela Comella, Giusy Pitruzzello, Giovanni Lombardo e Andrea Parisi) una cooperativa di servizi di trasporto che vuole facilitare e sviluppare il turismo e la permanenza in Sicilia da parte di persone con diverse disabilità e dei loro amici e famigliari, a partire da coloro che si muovono con la sedia a rotelle.

Quella che segue è la gran bella chiacchierata fatta con Giovanni Lombardo e Andrea Parisi.

Buona lettura!

Giovanni: Il progetto nasce in modo spontaneo: Andrea da qualche tempo ha acquisito una licenza taxi su Siracusa e svolgendo il suo lavoro si è resto conto che c’erano delle esigenze, dei bisogni particolari che il nostro territorio non era preparato ad affrontare e soddisfare. Parlo di turisti che non possono prendere un mezzo di trasporto qualsiasi e non trovano facilmente personale e organizzazioni pronti a seguirli durante i loro spostamenti.

Io, invece, sono vissuto 28 anni fra l’Italia e l’estero, da undici anni vivevo e lavoravo in Inghilterra con tutta la mia famiglia, a un certo punto abbiamo sentito nascere il desiderio di tornare a vivere a Siracusa, accanto a parenti e amici. Perciò ci siamo dati una possibilità iniziando a ideare un progetto di impresa insieme ad Andrea e sua moglie Daniela, con i quali ci conosciamo sin da quando eravamo ragazzini.

Free Wheeling è nato così e non poteva che nascere qui in Italia, specialmente in Sicilia, luoghi in cui non esistono infrastrutture pubbliche che siano in grado di soddisfare i bisogni quotidiani di vita sociale e di totale accessibilità di coloro che vivono l’invalidità.

D: Quando ti sei trasferito fuori Siracusa quasi trent’anni fa com’era il sistema del welfare? Si respirava già un’aria diversa da quella che vivevamo in Italia?

G: In effetti il welfare e lo special need si stavano sviluppando da parecchio tempo. Attualmente esiste un sistema di nursery ben radicato dedicato agli anziani non autosufficienti grazie al quale le persone possono vivere nelle loro case, con i loro familiari, ma durante il giorno il comune di residenza offre loro un sistema di trasporto e dei centri di incontro in cui passare le giornate in maniera più attiva, ma dotati di assistenza medica. Questo è un esempio come tanti altri che potrei fare, ma che serve a comprendere che in questo momento nel nostro paese sono le iniziative di privati e associazioni che sopperiscono alla mancanza cronica di servizi diversificati.

Di contro, è vero che mancano servizi importanti per la vita della comunità, ma è anche vero che il nostro patrimonio culturale, le bellezze paesaggistiche e quella specifica qualità della vita tutta italiana, informale, con ritmi più consoni alla crescita di una famiglia, sono stati per mia moglie, per i miei figli e per me, i motivi per tornare qui a Siracusa e trovare un modo di permettere anche ad altri di godere pienamente di questi luoghi bellissimi.

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Veduta di Siracusa dalla parte di Ortigia – Courtesy of Agostino Sella

D: E, invece, Andrea, tu sei sempre stato qui a Siracusa?

Andrea: In realtà ho viaggiato molto per lavoro, anche all’estero, ma la mia famiglia ha sempre fatto base a Siracusa, quindi, nelle pause lavorative, sono sempre tornato a casa, pur mantenendo sempre il desiderio di un forte contatto con la strada e con il pubblico. A un certo punto ho deciso di prendere la licenza taxi per mettere insieme la mia passione per la guida al volante (ma non solo, devo confessare che sono anche un velista appassionato) con la necessità di non allontanarmi per lunghi periodi da Siracusa.

Durante le giornate in taxi vengo a contatto con tanti clienti diversi che mi portano le loro storie, le belle esperienze che fanno nello nostra città e anche i problemi come quello di spostarsi nel siracusano e nel ragusano in assenza di mezzi pubblici o di agenzie di trasporto organizzate. Spesso, durante la bella stagione, ho scoperto che il turismo su Siracusa è molto vario, ci sono persone, anche su sedia a rotelle oppure sorde o non vedenti, che vengono da queste parti per fare sport, non solo per godersi le bellezze del paesaggio o la buona cucina. Tanto che abbiamo pensato di sviluppare diversi pacchetti di servizi dedicati alle varie tipologie di utenti.

Devi tenere conto che la clientela, cosiddetta disabile, a cui ci rivolgiamo, è molto dinamica, abituata a spostarsi, a viaggiare. Sono persone già organizzate, che girano il mondo e che vengono qui a Siracusa nonostante le grandissime difficoltà. Ma vorremmo che anche coloro che non hanno mai preso in considerazione l’idea di venire in Sicilia, sappiano che possiamo fornirgli tutto il supporto logistico di cui hanno bisogno.

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Portare il coding nella mia città n°2

2.0 Oggi sono tornata a scuola. Ormai lo faccio sempre più spesso. È dal 9 dicembre 2015 che non ne scrivo, nel frattempo ho iniziato a parlarne concretamente, a incontrare persone coinvolte, a comprendere i limiti e le opportunità. Qualcuno ne sa più di me, altri mi hanno chiesto di raccontare loro il quadro della situazione. Perché Avola non è una cittadina sempre ricca e spensierata e realizzare progetti che aiutino i ragazzini e le ragazzine di oggi a crearsi nuove opportunità, non è uno scherzo.

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Inoltre, come ho appreso dai miei giretti nelle scuole, i problemi da affrontare sono tanti e tanti i ritardi nel rispondere alle iniziative lanciate dal MIUR; questo non accade per mancanza di volontà, come si potrebbe pensare, ma perché le scuole non sono entità a se stanti, sganciate dal luogo in cui sussistono. Ogni cittadina d’Italia ha le sue problematiche locali e sovente la povertà di mezzi delle famiglie e, quindi, la necessità di rispondere a bisogni basilari, la fanno da padroni. Eppure nelle scuole di Avola mi hanno aperto le porte e dato la disponibilità a costruire qualcosa che dia una prospettiva futura.

Se c’è un luogo fisico in cui convergono i problemi che colpiscono la nostra società e le soluzioni possibili, questo è proprio la Scuola; perché, nonostante i ritardi, le politiche europee sottoscritte dal Governo e, soprattutto, la naturale capacità della Scuola di fare da collettore sociale essendo molti gli attori in causa (bambini, docenti, genitori etc), sono i punti di forza di ogni comunità.

Perciò, come sempre, come parlare di cultura digitale a un neofita? Cosa può fare il sistema Scuola in Italia e ad Avola e perché?

2.1 Partiamo da un assunto: la digitalizzazione della cultura è iniziata un bel po’ di anni fa in tutto il mondo ed è andata di pari passo con la diffusione di un approccio sempre più scientifico alla formazione scolastica. Quando scrivo il termine “scientifico”, lo intendo in modo esteso, relativamente a metodi e forma mentale che, in ogni caso, non prescindono da una cultura umanistica, ma offrono gli strumenti per rendere più intellegibili saperi, competenze, mass media, social media e così via.

Volendo collocare l’avvento della digitalizzazione in un periodo preciso, il momento è stato quando gruppi di studenti e imprenditori statunitensi hanno iniziato a lavorare al concetto di computer personale ovvero alla possibilità di rimpicciolire le dimensioni dei calcolatori per farli arrivare in tutte le case del mondo.

Certo, i primi siamo stati noi italiani con la Programma 101 della Olivetti, ma erano gli anni Sessanta e in Italia i visionari non erano ben visti, gli obbiettivi erano altri: industrializzazione a manetta, prima di tutto, quindi metterci al passo con gli americani e far arrivare le lavatrici, gli aspirapolvere e il televisore in tutte le case. Eravamo indietro di circa vent’anni, del resto.

2.1.1 Qui in Italia stiamo pensando di preparare i nostri bambini ad una società e a un mondo del lavoro che non sono il futuro, non stanno succedendo adesso, ma sono già successi. Siamo comunque in ritardo. Questa considerazione suona grave, ma non è possibile mettersi le mani nei capelli e fermarsi. Il divario, è iniziato a farsi consistente circa trent’anni fa ovvero negli anni Ottanta. Con questo non voglio dire che in Italia non ci siano persone molto preparate, ma non bastano. Ma soprattutto, è il mondo della piccola e media impresa, con le dovute eccezioni, che non è pronto ad aver a che fare con queste competenze complesse e poco settoriali.

Quello che è successo fino agli inizi degli anni Duemila è che molte persone nel mondo si sono specializzate in alcuni campi che noi chiamiamo genericamente “informatico” e “scientifico” e i progressi in campo tecnologico sono dovuti anche al lavoro di queste persone e al fatto che hanno saputo sfruttare tutti gli strumenti che avevano a disposizione per condividere informazioni e competenze.

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Il problema della confettura di fragole ibride

Ho letto delle cose oggi. Cioè, leggo cose ogni giorno, più volte al giorno, per chi non lo sapesse. Ma oggi ho letto delle considerazioni sulla cultura digitale che mi hanno fatto riflettere per l’ennesima volta sulla mia storia personale e su quanto la narrazione del mio divenire digitale si sia intrecciata con la narrazione delle storie e delle esperienze di alcuni digital champion e non solo.

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Come è fisiologico che sia, l’associazione che ha fatto capo all’iniziativa di promuovere la cultura digitale nel paese Italia è stata fonte di discussioni e riflessioni contrarie al pensiero di Riccardo Luna e contrarie al messaggio portato avanti in questo ultimo anno e, se non al messaggio, ai modi in cui è stato veicolato o non è stato veicolato. Insomma, non mi dilungo oltre, la casistica è immensa e varia, fatta di Sì e anche di Però che assurgono a categorie discriminanti e prolisse. Sul web, se vi fate un giro cercando “digital champion” e le sue varianti linguistiche, trovate una serie di post pro, contro e ni per farvi una vostra idea.

Io una mia idea la ho e, contrariamente a quanto faccio di solito, mi esporrò senza timori (tanto i miei quattro lettori e mezzo non me ne vorranno).

Non sono una nativa digitale per ovvi motivi anagrafici, inoltre sulle mie spalle peserà per sempre la responsabilità di aver negato a mio padre la gioia di regalarmi il mio primo personal computer, però dal 1999 in poi mi sono più che ripresa il tempo perduto, tanto che in alcuni periodi di questi ultimi decenni mi sono dedicata addirittura a creare indecentissimi siti internet e ho frequentato, se non l’alba, le dieci di mattina del web prima dell’avvento dei social media grazie ai gruppi usenet.

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Se la cultura è digitale, la mente è open

Voglio farvi un esempio di cosa significa per me la locuzione “cultura digitale”.

Ero sulla timeline di Facebook il 3 gennaio e mi è capitato sotto gli occhi uno status di Matteo Tempestini, ingegnere informatico e non solo, che ha scritto questa riflessione:

Primo pensiero del 2016: Siamo figli di un campanilismo tra città che oggi non ha più senso. Oggi io vedo #‎Firenze‬ come un’estensione di #‎Prato‬. I fiorentini possono fare la stessa cosa con Prato, cosi come i pistoiesi, ma anche cittadini di città distanti dalla mia se si legano alla mia con un progetto comune. Nessuno può più pensare di “farcela da solo” anzi la logica del “farcela da soli” porta l’ “immobilismo innovativo” in cui a volte ci troviamo ad essere. In un momento in cui le risorse (umane ed economiche) sono scarse si vince se tra città diverse si riesce a fare squadra e non a fare competizioni gli uni contro gli altri. Proviamo ad “agganciare” i nostri territori tra loro con internet. Abbiamo tutti da guadagnarci qualcosa. #‎secondome‬ #‎piattaforme‬ #‎cittàintelligenti‬

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La sua riflessione (e il suo invito. Hey! Ho scritto: il suo invito), postata pubblicamente, mi ha permesso di rispondere con una mia testimonianza sul lavoro che si sta facendo per la città di Siracusa e questo ha innescato una conversazione fra di noi, fra Prato e Avola, a chilometri di distanza, che sta producendo questo articolo, ma non solo.

Nel frattempo, infatti, io sto lavorando sulle slide di presentazione del progetto di coding che vorrei portare qui ad Avola e che spero di fare presto con la partecipazione dei dirigenti scolastici e degli animatori digitali delle scuole di questa bella cittadina sul mare in cui vivo. La conversazione con Matteo mi ha fatto venire in mente ciò che vorrei comunicare di più e con forza:

la cultura digitale diffusa produce e amplifica la cultura in senso tradizionale del termine, nuove competenze, rinnovate conoscenze, contaminazioni, ci permette di lavorare su più livelli e fra persone con culture, età e competenze diverse, nonché in luoghi diversi nonostante le distanze e le differenze, imparando a condividere problemi, bisogni e soluzioni, adattando e migliorando le esperienze di successo attraverso un sistema aperto (open) e fluido qual è la rete (il web, internet) in quest’epoca e grazie agli strumenti già eccezionali che abbiamo a disposizione (pc, tablet, smartphone).

Ma come si forma la cultura digitale? Ha davvero a che fare con il saper programmare ovvero fare coding? Bisogna essere informatici per poter affermare di avere la padronanza della cultura digitale? Stiamo abbattendo a calci e con le mazze chiodate l’edificio immenso della cultura umanistica?

In realtà la cultura digitale utile a formare e sostenere i cittadini di oggi e di domani, gli individui e le collettività, non può prescindere da una scuola che sappia trasmettere tutte le conoscenze e il saper fare che ci possono permettere di avere una visione consapevole e critica della vita che ci sta venendo incontro ogni giorno: la storia, le scienze, la letteratura, l’arte.

I piccoli cambiamenti che dobbiamo affrontare ogni giorno e i macro cambiamenti sociali, storici, economici, ambientali positivi o negativi che siano, possono essere affrontati meglio se tutti noi abbiamo a disposizione gli strumenti per farlo e sappiamo anche come usare al meglio questi strumenti e come mantenerli efficaci nel tempo.

La cultura digitale non è altro che un mezzo immenso e potente che possiamo decidere di usare correttamente per diffondere conoscenza e consapevolezza, e magari anche le competenze per lavorare ed essere autonomi e padroni della nostra vita: la possibilità di scegliere sapendo cosa si sta scegliendo, senza tuffarsi alla cieca in un futuro incerto.

È qualcosa che permette a Matteo Tempestini di agire e raccontare gli open data e a me di comprenderne i meccanismi e diffonderne l’utilizzo.

In quest’ottica, portare il coding nelle scuole è utile a sviluppare il pensiero computazionale, ma anche a far impegnare gli studenti in progetti che li coinvolgano in prima persona portandoli a cercare e produrre le risposte di cui hanno bisogno e a mettere insieme, in maniera organica, quanto appreso nelle ore di studio.

Per questo e per altri motivi penso che coloro che operano nelle scuole e nelle università, coloro che fanno impresa, i rappresentanti della Pubblica Amministrazione e i governanti non debbano temere questo tipo di innovazione partecipata che sta nascendo grazie alla proliferazione di progetti per le città intelligenti, che richiedono un approccio ai dati, alle informazioni, di tipo open e condiviso, e alla diffusione di concetti quali la Circular Economy, che permette di sposare le istanze tipiche della tutela dell’ambiente con quelle della lotta alla crisi economica.

E, qualora volessimo essere considerati solo semplici cittadini, neanche noi dovremmo temere o disprezzare questo processo che ci sta inevitabilmente coinvolgendo: è vero che la partecipazione e la condivisione richiedono una certa dose di senso di responsabilità; qualsiasi miglioramento abbiamo sempre cercato, anche prima di quest’epoca, ha richiesto senso di responsabilità.

In un progetto partecipato da tutta la cittadinanza non accadrà più che il cambio di governance potrà influire anche negativamente sullo stato delle infrastrutture e dei servizi al pubblico perché ogni cittadino avrà la sua parte di controllo e responsabilità sui processi di PA.

Questo movimento di persone in ogni parte d’Italia e del mondo non è sotterraneo, non ha un gergo segreto, non è proprietario di ricchezze o conoscenze inaccessibili.

Non solo. Questo movimento di persone è impaziente di condividere tutte le informazioni e le buone pratiche che conosce con chi glielo chiederà. Se dovessero sembrarvi impazienti, non lo sono perché gli dà fastidio che non abbiate compreso, ma perché vorrebbero che gli aveste chiesto tutte le informazioni ieri.

 

[l’immagine di copertina è stata liberamente scaricata dal sito alphacoders.com]

 


Buon 2016! Nuovo, elettrico e sostenibile.

Ci ho pensato un tot, ecco. Non sono una sentimentale, ma mi sembrava doveroso e simpatico scrivere un articolo che fosse un saluto e buon augurio per l’anno che sta arrivando.

Ho deciso di riacchiappare i fili (elettrici) di due progetti che si stanno realizzando a nord e a sud della nostra Italia e che riuniscono in un grande elettrizzante abbraccio il nostro paese. Proprio perché mi piace raccontare di suggestioni e progetti, di storie di innovazione tecnologica e culturale che abbiano una visione di sostenibilità per l’ambiente e per le nostre vite anche dal punto di vista sociale ed economico.

È con grande piacere che ho nuovamente intervistato Enzo di Bella e Valerio Vannucci, rispettivamente referenti, Enzo per Archimede Solar Car, l’autovettura low cost alimentata da pannelli fotovoltaici costruita a Siracusa, in Sicilia, e Valerio per iaiaGi, il kit e piattaforma di sviluppo open source per la conversione delle auto dal motore a scoppio al motore elettrico, che si sta sviluppando in Emilia Romagna, in quel di Modena.

Il lavoro che questi due team stanno facendo è entusiasmante. A me piacciono entrambi e vorrei vederli realizzati proprio perché intervengono nello stesso settore, ma partono da due regioni del nostro paese che hanno, in questo momento storico, le stesse ambizioni, ma un passato e un presente di supporto alle imprese innovative differente.

Prima di lasciare la parola a Enzo e Valerio, chiedo venia, ma per problemi di spazio ragionevole, non ho inserito tutto il materiale messo a disposizione da entrambi.

Archimede Solar Car dell’associazione Futuro Solare Onlus (ne avevo parlato qui)

D: Enzo raccontaci cose è successo subito dopo che avete raggiunto il goal dei 15 mila euro nella campagna di crowdfunding su Kickstarter.
Enzo Di Bella: C’è stato un costante aumento di interesse da parte di tutti, tanto che la rivista Photon ci ha onorato di uno splendido articolo scientifico pubblicato proprio nel mese di dicembre. Inoltre, il team si è riunito per fare il punto della situazione.
Innanzitutto vogliamo farvi sapere che abbiamo intenzione di rinnovare il concept di Archimede per passare alla fase 2.0 del progetto; questa fase è ancora a livello embrionale, ma l’obbiettivo è rendere il design dell’autovettura più accattivante, permanendo le finalità di progettazione e realizzazione low cost e sostenibili, che sono il nostro marchio.
Archimede 2.0 potrebbe avere un aspetto ispirato alle linee della Spider oppure a quelle di un’auto più piccola, comoda e, soprattutto a due posti.
Quello che stiamo discutendo in questo momento sono le linee guida e l’idea è quella di essere pronti nello spazio di due anni per portare l’auto al concorso australiano per le vetture elettriche sperimentali.

D: Quali sono gli obbiettivi più immediati?
R: Portare Archimede al concorso che si terrà in Belgio a settembre 2016 e, prima ancora, riuscire a fare una serie di dimostrazioni pratiche su strada con la versione 1.0. Per ottenere questo risultato stiamo preparando una domanda da inoltrare al Ministero dei Trasporti che ci permetterà di avere una targa speciale e la possibilità di circolare su strada e organizzare un giro della Sicilia oppure un tour Siracusa – Palermo.

D: Collaborazioni e partnership, invece, a che punto sono?
R: Abbiamo intenzione di coinvolgere altre associazioni che possano aiutarci a migliorare le qualità di Archimede, stiamo cercando attivamente startup o società che basano il loro lavoro sui concetti di riciclo e recupero dei materiali e che facciano ricerca su materiali plastici derivanti da scarti di prodotti di natura ortofrutticola.
Inoltre, abbiamo deciso di privilegiare aziende produttrici che facciano ricerca e sperimentazione all’interno dell’area UE, in questo momento stiamo cercando un produttore di batterie che sia disposto a personalizzare i suoi prodotti. Le aziende interessate ad aiutarci con Archimede sono molte anche a livello extraeuropeo, ma poiché il nostro progetto vuole essere economicamente sostenibile, non possiamo sempre accogliere aiuti basati su standard e grandi numeri; Archimede è un’opportunità di fare ricerca e innovazione tecnologica e le soluzioni esistenti non fanno sempre al caso nostro, piuttosto una loro qualità dovrebbe essere la possibilità di modificarle ad hoc.

D: A che punto sono effettivamente le soluzioni tecnologiche di Archimede?
R: Adesso come adesso i dati sono pochi per avviare una sperimentazione di tipo scientifico: ci servono informazioni sistematiche sull’efficienza energetica, la tenuta meccanica e l’affidabilità delle parti utilizzate. Queste informazioni le otterremo da qui ad aprile, quindi, avremo i dati per capire quali sono le parti del veicolo da migliorare e quali hanno già le giuste qualità.
Archimede è un vero e proprio laboratorio viaggiante i cui risultati potranno avere ricadute utili su altre vetture e anche altre apparecchiature .

D: La comunicazione del progetto invece come procede?
R: Posso anticiparti che, in collaborazione con il professor Rosario Lanzafame dell’Università di Catania, stiamo organizzando un convegno in cui parleremo di problematiche relative alla mobilità sostenibile da un punto di vista ingegneristico e che abbiamo stipulato degli accordi con gli istituti scolastici (terze medie e licei) del comprensorio di Siracusa per raccontare a ragazzi, insegnanti e genitori il bello della possibilità di muoversi senza usare energia prodotta da combustibili fossili.

Per chi volesse approfondire:
il sito di Futuro Solare
Photon è una rivista mensile dedicata al mondo del fotovoltaico ed è reperibile abbonandosi attraverso il sito Photon.info

 

iaiaGi – Automotive Idea for an Advanced Galileo Ferraris finding Implementation (ne avevo parlato qui)

Domanda: Ciao Valerio, per favore, raccontaci cosa è cambiato dal mese di maggio 2015 in cui tu e Alberto mi avete raccontato il progetto iaiaGi.
Valerio Vannucci: Partendo dalla prima call for makers abbiamo impiegato circa tre mesi per formare e informare le persone che si sono aggregate attorno al nostro progetto. Il periodo da maggio ad agosto, inoltre, è servito anche a me e ad Alberto per trovare il nostro modo di gestire le interazioni fra di noi, anche perché d’un tratto ci siamo ritrovati in venti a doverci confrontare e non è sempre stato facile.
All’interno del progetto sono confluite anche due realtà organizzate: un’azienda che aveva già progettato un kit di conversione, la Evotek Engineering, e un ecovillaggio, che si chiama Tempo di Vivere e si trova a Marano sul Panaro, in provincia di Modena.

D: Quali novità hanno portato Evotek e Tempo di Vivere?
R: L’incontro con Evotek ha prodotto un confronto tecnico che ci ha aiutato ad affinare il progetto. Con Tempo di Vivere, invece,  abbiamo definito meglio la comunicazione verso l’esterno e la gestione delle diverse personalità all’interno del gruppo, inserendo di fatto un nuovo fattore all’interno di iaiaGi: un nuovo concetto per gestire le dinamiche di gruppo. E questa cosa la stiamo documentando come tutti i processi che si sono avviati per la realizzazione del kit di conversione. Il counselor dell’ecovillaggio interviene ogni volta che ci sono dei conflitti da risolvere, rendendoci possibile il prendere decisioni all’unanimità. Affinché l’economia solidale si esplichi non solo a livello commerciale, ma anche nei rapporti interpersonali.

D: Che tipo di azioni hanno prodotto queste partnership e i nuovi ingressi nel gruppo?
R: Abbiamo partecipato al Climate Launchpad 2015 competition, un concorso europeo che coinvolge 28 stati e consiste nel proporre idee di tipo tecnologico che prediligono un impatto sostenibile sull’ambiente, ma non siamo riusciti a classificarci per arrivare ad Amsterdam che è sede della competizione internazionale. A settembre, invece, abbiamo partecipato al festival EcoFuturo 2015  evento che si svolge presso la Libera Università di Alcatraz portando la nostra storia ad una tavola rotonda sulla mobilità sostenibile e partecipando a un seminario sul nostro progetto.
Entrambe le esperienze sono state utili per comprendere che il nostro percorso è molto distante come filosofia rispetto al percorso che fanno normalmente imprese come le startup.
L’idea iniziale era quella di realizzare un prototipo, fare una dimostrazione pubblica di stampo makers, dopodiché avviare una campagna di crowdfunding che ci permettesse di concretizzare il prototipo in un prodotto replicabile. Perciò siamo tornati a concentrarci sulla costruzione del prototipo del kit.

D: Di cosa avete bisogno per realizzare il prototipo, quali sono le difficoltà?R: Il primo problema, conti alla mano, è che avevamo le informazioni tecniche, ma ci mancava il materiale: l’autovettura da modificare e la componentistica elettronica e meccanica per la conversione.
Quindi ci siamo autofinanziati e, anche con l’aiuto di qualche follower della newsletter, abbiamo comprato una Ford Fiesta che adesso è in garage in attesa dei test di gennaio.
Il progetto ha subito un’accelerazione in seguito all’acquisto dell’auto perché chi ci seguiva ha compreso che facciamo sul serio e che si poteva iniziare a parlare di questioni pratiche.

D: Ci sono state ricadute positive?
R: Sono arrivati i primi riscontri da parte di alcune aziende del territorio emiliano. Una di queste società ci aiuterà a testare e a mettere a punto l’elettronica di bordo e l’alimentazione perché possiedono il know how per interfacciarsi con le centraline preesistenti sulle autovetture. Di fatto dovremo costruire un simulatore del motore a scoppio e questa azienda porterà la sua strumentazione per capire come dialogano fra di loro e con i sensori del motore, le centraline presenti sul veicolo.
I test di gennaio ci daranno la possibilità di stabilire una procedura che permetterà di convertire qualsiasi veicolo e sarà integrata all’interno della documentazione del kit.
Il kit di conversione, infatti, è stato concepito come il kit di Arduino: il più aperto possibile.
Altre due aziende partner sono la B.Engineering che ci fornirà i locali per effettuare le attività di conversione, e la Nuova Ferrari e Zagni che si occupa di rigenerazione dei motori a scoppio dal 1959 e che, già quattro anni fa, aveva deciso di dedicarsi al settore elettrico; quest’ultima si è offerta di finanziare parte del progetto.

D: Sembra che l’Emilia Romagna si confermi sempre terra fertile per l’innovazione.
R: La verità è che l’Emilia Romagna è l’unica regione di Italia che ha varato la prima legge regionale che tutela l’economia solidale e tutti coloro che se ne facciano promotori.
A partire dal team di makers che si è creato attorno a iaiaGi, proseguendo con le collaborazioni con cinque aziende, la partnership dell’ecovillaggio e questa legge regionale che tutela progetti come il nostro, ci sentiamo pienamente appoggiati. Tanto che, non per ultimo,  siamo venuti a contatto con il Distretto di Economia Eco Solidale di Modena che è un organismo di coordinamento nato grazie a questa legge regionale, che ha come scopo di raccogliere tutti coloro che operano in realtà come la nostra. Il Coordinamento Regionale per l’Economia Solidale ci ha chiesto di collaborare alle sue attività perché, al momento, siamo l’unico progetto con risvolti tecnologici in ambito bio-economico.
In sostanza questi sette mesi ci hanno portato a consolidare il gruppo e a stabilire un rapporto con il territorio in cui operiamo, fattori determinanti a stabilire il successo di questo progetto.

D: Quali sono le tappe successive ai test di gennaio?
R: Ultimare il prototipo entro la fine di marzo 2016; una serie di eventi pubblici a partire da aprile in seguito a un collaudo dell’auto grazie all’uso di una targa di prova.
Entro giugno vorremmo far partire la campagna di crowdfunding per costruire il nostro primo kit. Anche se il kit è uno strumento, ciò che davvero conta per noi è la piattaforma di sviluppo, qualcosa su cui altre persone, anche insieme a noi, avranno la possibilità di realizzare tecnologie ancora più innovative e sostenibili.

Per qualsiasi approfondimento iaiagi.com

 

[L’immagine di copertina è una rielaborazione di una foto del sole presente sul sito della Nasa]

 


CyberMediAvola: per una cultura della privacy e dell’informazione

Se è vero che i dati del patrimonio informativo pubblico in quest’epoca devono necessariamente aperti e condivisibili da chiunque, d’altro canto è più che giusto che i nostri dati personali siano tutelati nel miglior modo possibile.

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Entrambe le istanze e necessità non sono responsabilità demandabili a idee fumose su enti o istituzioni che ci siamo fatti nel corso delle nostre esperienze di vita sociale e politica.
La responsabilità è prima di tutto nostra: chi meglio di ognuno di noi sa cosa vuole e può condividere della sua vita? E chi meglio di noi sa quanto possono essere utili le informazioni provenienti da Pubbliche Amministrazioni, istituzioni e stampa?

Notevole a questo proposito l’iniziativa di un gruppo di miei concittadini di Avola di costituirsi in team di lavoro e organizzare un convegno divulgativo su comunicazione, informazione, privacy e sicurezza presso il centro giovanile di Viale Mattarella. L’evento si è tenuto il 27 dicembre 2015 ed è stato un buon punto di partenza per imparare e confrontarsi su temi che ci coinvolgono tutti ogni giorno.

Sebbene sia sempre molto coinvolta in attività che si svolgono nel comune di Siracusa grazie alle iniziative di Impact Hub, è stato piacevole e importante partecipare al convegno, perché mi ha dato la possibilità di incontrare i miei concittadini sul vasto territorio delle tematiche che riguardano la comunicazione a tutto tondo.

Il gruppo di relatori è composito tanto quanto complessi e vasti gli argomenti affrontati. Due giornalisti, Cenzina Salemi per il quotidiano La Sicilia e Antonio Dell’Albani per Il Giornale di Sicilia, un blogger, Antonino Campisi per Avolablog, Chiara Marescalco, social media manager e Ilaria Sangregorio, social media specialist, Salvatore Rametta, presidente di ALUG (Avola Linux User Group) e il moderatore, Gianni Amato, cyber security expert.

Le suggestioni ricevute sono state tante, parte del pubblico si è lasciato coinvolgere dai racconti sul ruolo dell’industria della stampa nella nostra vita, altri dai racconti sui social media, sulla pubblicità online e sul ruolo preponderante che hanno le tecnologie che tutti possediamo fra smartphone e pc.

Il giornalista ideale di Antonio Dell’Albani è colui che segue la deontologia professionale, una persona che non si lascia fuorviare dall’immediatezza e dalla facilità di utilizzo e diffusione delle notizie offerta dai social media, ma persegue il convincimento che essere veritieri e onesti con i propri lettori sia fondamentale. E in effetti, perché non preferire questo tipo di giornalismo alla moltiplicazione becera di news inconsistenti e spesso false? Premiare chi ci racconta gli avvenimenti facendo una verifica costante delle fonti, è fondamentale per avere un servizio di qualità.

Qualità che, secondo Cenzina Salemi, si esplica attraverso un forte senso di responsabilità da parte del giornalista e favorendo l’interazione con i lettori. I giornali dovrebbero dare le notizie che il cittadino non vuole leggere, piuttosto che preferire esclusivamente schemi funzionanti e di successo, ma succubi dei proventi provenienti dalle pubblicità. Occorre, però, trovare un equilibrio fra la necessità di sopravvivere a leggi di mercato crudeli e una rinnovata spinta a produrre informazione autentica.

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L’autenticità è sicuramente una delle qualità che sono di ispirazione per gli articoli e le fotografie di Nino Campisi, in assoluto il blogger più conosciuto ad Avola. Campisi ci racconta che ha iniziato a collaborare con Avolablog condividendo le sue fotografie. Condivisione, passione e trasparenza, senza dimenticare una grande attenzione per gli aggiornamenti costanti delle news offerte dal blog, sono, secondo Campisi, le basi per costruire la propria credibilità.

E l’informazione credibile su cui dovremmo fare affidamento, quali strumenti usa e con quali intenti, nell’epoca della diffusione di internet e delle nuove tecnologie su vasta scala?
L’informazione online mette a dura prova giornalisti e lettori: multimedialità, tempestività e fruibilità sono i cardini della stampa online.

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I doni neri di Papà Idrocarburo

 

Papà Idrocarburo non si ferma mai, per lui è festa tutto l’anno. Sparge i suoi doni incessantemente, notte e giorno, ma soprattutto di mattina presto. Se provassimo ad affacciarci virtualmente per osservare la skyline di Taranto, li vedremmo, letteralmente, un velo scuro di doni: diossina, Idrocarburi policiclici aromatici (IPA), Policlorobifenili (PCB)… Apirolio, Cadmio, Arsenico, Piombo, Cromo.

Si racconta (ed io riferisco) che a Taranto Papà Idrocarburo non si cali nei camini, ma ne esca, uno dei suoi preferiti si chiama E312; ma spesso la sua slitta parte anche dalle colline nere e rosse accoccolate poco lontano, anzi, vicinissime. Non c’è nessuno che non abbia ricevuto i suoi doni. Buoni, cattivi o ignavi, sparsi da tempo lungo le strade del mondo, tutti i tarantini sanno chi è Papà Idrocarburo.

babbo-natale-cattivo

Qualche giorno fa Legambiente ha divulgato a mezzo stampa i primi dati statistici sull’inquinamento dell’aria nelle città italiane. Non è la prima volta, se andate sul sito dell’associazione, troverete i rapporti relativi agli anni precedenti cercando “PM10 ti tengo d’occhio” e “Mal’aria”.

È la prima volta, invece, in cui mi soffermo a pensare: e Taranto? A che punto sarà di questa classifica? Perché non è fra le prime città nella statistica? Quotidiani e telegiornali hanno parlato dei rischi connessi agli elevati volumi di traffico nelle grandi città. E non è una notizia sbagliata.

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Però, nonostante la bontà delle fonti, io l’ho sentita incompleta. Perciò, ho cercato di capirne qualcosa in più. Ovviamente, questo è un mio sentire, che non ha un valore scientifico, ma oserei dire, umanistico. Sono questi i giorni successivi a Cop21, la conferenza sul clima che si è tenuta a Parigi e che ha visto 200 paesi produrre un accordo definito “storico” da Craig Welch in un articolo apparso su National Geographic Italia.

Cito una parte fondamentale dell’articolo: “Passare da un mondo dominato dai combustibili fossili a quello delle energie pulite non è né facile né semplice. E per molti esponenti del mondo degli affari è stato complicato capire dove investire i propri sforzi e il proprio denaro. Dai gestori dei fondi d’investimento, alle banche, ai finanziatori dell’energia, molti hanno chiesto di avere qualche risposta chiara su quale fosse la direzione da intraprendere.

Se il patto di Parigi diverrà un crescendo di azioni concrete, alcuni dei paesi produttori di combustibili di origine fossile, si troveranno ad affrontare una crisi economica epocale. E in questo mondo iperconnesso, non possiamo ignorare i benefici, ma nemmeno le difficoltà che deriveranno da questa svolta.

I tarantini stanno cercando da anni di affrontare il problema dell’inquinamento causato dagli insediamenti industriali sul proprio territorio. Ecco, a Taranto il problema non è il traffico.
Quindi è per questo motivo che non rientra fra le prime città più inquinate secondo la statistica di Legambiente?

Per avere una prima risposta, ho chiesto notizie del rapporto nominato dai quotidiani attraverso la pagina Facebook dell’associazione, ma la stampa ha ricevuto delle anticipazioni e il rapporto completo sarà pubblicato a gennaio. Come potete leggere dallo screenshot qui sotto, Legambiente mi ha cortesemente risposto che lo pubblicheranno (e quindi sarà accessibile a tutti), ma per il momento devo fare le mie riflessioni personali facendo a meno di dati freschi.

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Il primo documento utile che trovo è comunque recente, risale agli inizi del 2015 e si trova sempre sul sito di Legambiente da cui potete scaricare anche il dossier completo.

Nella premessa di Mal’ARIA 2015 è scritto: “L’Italia rappresenta una delle situazioni più critiche anche a livello europeo, soprattutto per quanto riguarda il PM10, il PM2,5 e l’ozono, come si evince dai dati dell’ultimo “Rapporto sulla Qualità dell’aria 2014” redatto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente.“.

Cito ancora dal documento: “I principali settori che contribuiscono all’emissione di questi macroinquinanti (PM10 ecc, n.d.r.) sono quello industriale (per gli ossidi di zolfo), i trasporti marittimi (per i NMVOC) e stradali (per gli ossidi di azoto e benzene) e quello del riscaldamento e produzione di calore (per il monossido di carbonio e polveri sottili). Prevalentemente di origine industriale l’emissione dei microinquinanti quali metalli pesanti, diossine, PCB e IPA.“.
Questi ultimi sono i doni di Papà Idrocarburo.

Taranto viene nominata come eccezione: “I contributi principali all’inquinamento dell’aria derivano, soprattutto per i macroinquinanti, dal settore industriale, energetico, dai trasporti stradali e dal riscaldamento domestico. Quando ci concentriamo sui cosiddetti microinquinanti (quali metalli pesanti o sostanze pericolose tipo diossine, IPA o PCB) il contributo industriale diventa invece prevalente. La situazione cambia quando scendiamo a livello urbano, dove le fonti principali, ad eccezione di città che ospitano importanti attività industriali (prima fra tutte Taranto), diventano i trasporti stradali e il riscaldamento domestico: quest’ultimo assume una rilevanza maggiore nelle città in cui è prevalente l’uso della legna o dai combustibili fossili più inquinanti come olio combustibile o gasolio, mentre riduce di molto il suo impatto quando viene utilizzato il gas naturale.“.

ilmeteo

Secondo l’Istituto Superiore della Sanità, Taranto è in compagnia di altrettanti siti italiani sparsi per il paese: sono “18 i siti di interesse nazionale per le bonifiche (SIN) inclusi nel Progetto SENTIERI e serviti dalla rete AIRTUM dei Registri tumori.“. Le località in effetti sono molte di più: l’elenco completo è in fondo all’articolo. I comuni afferenti ai 18 SIN vivono in una situazione in cui abbassare di un grado e mezzo il riscaldamento delle case e sospendere o limitare temporaneamente il traffico cittadino in base alle condizioni meteorologiche (piogge scarse o assenti, ad esempio), non sono le soluzioni utili. Gli agenti contaminanti sono entrati nella catena alimentare e nel sistema endocrino da tempo.

I siti contaminati sono stati definiti dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) come aree che ospitano, o hanno ospitato, attività antropiche che abbiano prodotto, o possano produrre, contaminazione del suolo, delle acque superficiali o di falda, dell’aria e della catena alimentare, la quale dia luogo, o possa dare luogo, a impatti sulla salute umana.1 I siti contaminati nella definizione dell’OMS sono la risultante di uno sviluppo economico e industriale aggressivo e non attento alla tutela ambientale.“.

arpataranto

Ho chiesto ad Alessandro Marescotti di PeaceLink di spiegarmi perché, se si lancia l’allarme per l’inquinamento dell’aria in Italia, nessuno nomini Taranto fra le città con il primato peggiore.

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